La monodia gregoriana








L'origine del canto cristiano coincide con l'origine della Chiesa stessa. Dopo una lunga tradizione orale, in epoca carolingia si cominciò a sentire l'esigenza di compilare i primi manoscritti con notazione musicale, per stabilire l'autenticità dei canti liturgici e porre fine alla confusione e alla contaminazione avvenuta fra canto romano e canto gallicano. Per garantire una maggiore credibilità sull'autorità di questi canti, ne fu attribuita la paternità a San Gregorio Magno, da cui l'appellativo di "canto gregoriano". Allo scopo di garantire una migliore conservazione e di favorire la trasmissione del repertorio, esso fu messo per iscritto in vari centri monastici fra il IX e l'XI secolo.
Il repertorio gregoriano comprende i canti dell'Ufficio destinati ai momenti di preghiera nelle varie ore del giorno (Mattutino e Vespro) e i  canti della Messa (che costituisce la principale forma liturgica della Chiesa romana). Questi si suddividono nei canti dell'Ordinario, il cui testo rimane immutabile per tutte le Messe dell'anno (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei), e nei canti del Proprio, che variano ad ogni festività (Introito, Graduale, Alleluja o Tractus, Offertorio, Communio).
Fra i canti del  Proprio si può operare una suddivisione di carattere stilistico: quelli dell'Introito e del Communio sono in stile sillabico (ad ogni sillaba corrisponde una nota), quelli del Graduale, dell'Alleluja, del Tractus (che sostituiscono l'Alleluja in tempo di Quaresima) o in minor misura dell'Offertorio sono composti nello stile ornato o melismatico (a certe sillabe corrispondono molte note, che talora raggiungono un numero elevato).
La prima forma di notazione musicale gregoriana si esprimeva attraverso i "neumi", segni convenzionali corrispondenti a note o a gruppi di note, completamente svincolati da ogni riferimento numerico o mensurabile, i quali seguono un ritmo verbale, che asseconda l'andamento del discorso parlato. I neumi non indicavano l'altezza esatta delle note, ma i loro segni, eloquenti come la mano del direttore del coro, davano un'esatta indicazione dell'andamento dinamico, agogico e fraseologico del brano musicale. Questo tipo di notazione, che fissava il gesto chironomico del direttore, aveva inizialmente lo scopo di aiutare la memoria dei cantori. Più tardi si escogitarono dei sistemi per indicare l'esatta altezza delle note (riga rossa per il Fa e gialla per il Do, tetragramma, notazione quadrata, lettere chiave c= Do;F= Fa) per cui tutti i manoscritti musicali vennero ricopiati secondo i nuovi metodi di notazione, la quale però, ai fini esecutivi, non si mostrava altrettanto eloquente di quella neumatica, soprattutto per quanto riguardava l'esatta interpretazione in corrispondenza del ricco dispiegarsi dei melismi. Per questi motivi oggi, per eseguire fedelmente possibile il canto gregoriano, si mettono a confronto la notazione quadrata e quella neumatica di uno o più manoscritti antichi.




 
chiave di Do




chiave di Fa


  

  




notazione quadrata

Delle tre Messe composte per la liturgia del Natale, la Missa tertia, in Die, è la più antica. Di essa prenderemo in esame i canti del Proprio, in quanto più interessanti ai fini della conoscenza del canto gregoriano rispetto a quelli dell'Ordinario, la cui versione musicale è molto spesso dovuta a rifacimenti di epoca tarda.  
L'Antiphona ad introitum VII, Puer natus est nobis, scritta, com'è indicato nel titolo, nel settimo modo, serve da canto solenne d'introduzione alla Missa in Die. Composto sostanzialmente in stile sillabico, il brano alterna l'uso di ampie linee melodiche, che danno ariosità al pezzo, all'introduzione di più tristrofi, che conferiscono un senso d'indugio e di esaltazione del versetto del salmo Cantate Domino, viene ripetuta dal coro.  















J.S.Bach Concerti brandeburghesi,1721. BWV 1046 1051




Composti a Cothen fra il 1718 e il 1721, per il margravio di Brandemburgo Christian Ludwig, i Concerti brandeburghesi (quasi terminati nel 1720, quando morì improvvisamente la prima moglie di J.S.Bach, Maria Barbara) sono colmi di quell'ardore giovanile, di quella vivacità che fanno di essi gli eredi della scuola strumentale italiana e sono da annoverare fra le opere più gioiose che il compositore, allora direttore musicale alla corte del principe Leopoldo di Anhalt, abbia scritto.
Quando compone i Concerti per vari strumenti, Bach prende a modello una forma musicale che in quegli anni gli italiani avevano diffuso in tutt'Europa (Corelli, Torelli, ecc._): il concerto grosso che, sotto l'influenza dei concerti per violino di Vivaldi, adotterà poi i 3 movimenti (vivace, lento, vivace).
Nei brandeburghesi n°2 in fa maggiore, n°4 in sol maggiore e n°5 in re maggiore, Bach rispecchia lo spirito del concerto grosso; vi è  antagonismo, contrapposizione continua fra il concertino e il ripieno, pochi strumenti hanno un ruolo solistico, salvo il clavicembalo che interviene nel  e la cui ammirevole parte - soprattutto nrel 1° movimento - annuncia la forma del concerto per tastiera.
Altrettanto non si può dire per i Concerti brandeburghesi n°1 in fa maggiore, n°3 in sol maggiore e n° 6 in si bemolle maggiore. In essi uno strumento o vari piccoli gruppi di strumenti (per esempio i 3 violini, le tre viole e i 3 violoncelli del n°3) si staccano dalle masse orchestrali per cantare da soli, per dialogare fra di loro o con il ripieno.
Ma indipendentemente da come gli strumenti, raggruppati o meno, dialogano, i brandeburghesi rivelano una così eccezionale maestria nell'utilizzo dei timbri che numerosi musicologi vedono in essi una delle principali fonti della sinfonia di taglio classico.




Mazzini ordinò:"Le note diventano armi"




Fu Verdi l'artefice consapevole della fusione risorgimentale tra musica e politica.

Nel 1848, l'anno della "primavera dei popoli", mentre la rivoluzione borghese serpeggia tra le istituzioni dell'Europa autoritaria e legittimista, e mentre intellettuali e popolani scendono nelle strade delle maggiori capitali d'Europa e innalzano barricate, la febbre nazionalistica sembra essere la passione dominante. Nell'impeto della identità cercata e ritrovata da ogni singolo popolo, nel desiderio di individualità delle nazioni pare confluire, quasi per contraddizioni, una più che universale e collettiva solidarietà internazionale. Fu questo il "1848" in Europa, e fu anche questo il carattere essenziale di quel vasto movimento politico, ideologico e sociale che in Italia prese il nome di Risorgimento. Ma è bene ricordare che nell'incendio del "48" europeo la posizione dell'Italia era la più delicata e difficile: era l'unico paese dell'Occidente ad essere una "nazione" senza averne infatti i connotati essenziali. Non era unita ma divisa in setta Stati; non era indipendente ma controllata in gran parte dall'Austria. Dunque il Risorgimento fu un movimento, se è possibile dire, più complesso di tutti gli altri moti rivoluzionari che scossero Parigi, Berlino, Vienna. Per gli italiani la "libertà" si identificava anzitutto con l'idea di una liberazione dal "servaggio", con un moto di orgoglio nazionalistico. Solo dopo il 1849, dopo la fine ingloriosa della prima guerra d'indipendenza e il crollo per mano francese (cioè, ecco un altro paradosso, per mano dell'esercito di una repubblica che era sorta dalla rivoluzione parigina dell'anno prima) della repubblica romana, il moto risorgimentale si colorò di significati politici e sociali più avanzati. Gli ideali di unità e di indipendenza dallo straniero si arricchirono infatti di contenuti più radicali: il repubblicanesimo, la democrazia popolare (come superamento del liberalismo borghese), la giustizia sociale (con il socialismo di Carlo Pisacane e l'anarchismo di derivazione bakuniniana), l'insurrezione popolare e la "nazione armata" (con Garibeldi e Mazzini), il federalismo (con Cattaneo, Ferrari e Montanelli) come rivendicazione del valore delle autonomie regionali all'interno della nazione.
 In questo crogiuolo politico, per circa venti anni, dagli inizi degli anni '40 fino all'unificazione dello Stato italiano nel 1861, si consumarono le più autentiche e generose passioni politiche degli italiani. E come era avvenuto per i canti popolari e militari della Rivoluzione francese di fine '700 ( Marsigliese), così per gli italiani del Risorgimento furono anzitutto le musiche di Verdi ad esprimere ed interpretare i loro sentimenti più profondi. Che la musica potesse essere un alleato potente dell'ideologia della liberazione lo aveva del resto auspicato Mazzini già nel 1836 nel saggio Filosofia della musica, dove era indicata la necessità,per così dire, "politica" di una nuova musica, non più aulica e aristocratica, ma romantica e popolare che sapesse unificare, in un sublime armonia, i più gelosi sentimenti individuali con quelli collettivi della nazione.





Mazzini indicava soprattutto nel coro il simbolo di tale armonica fusione. E furono infatti i cori di alcune opere verdiane a simboleggiare le lotte del Risorgimento. L'identificazione fu così stringente e appassionata che ancora oggi si può fare a meno, riascoltando quelle musiche, di avvertire l'eco storica di una commozione straordinaria.
E' importante precisare, tuttavia, che il rapporto Verdi- Risorgimento (un rapporto di cui, comunque, il maestro fu consapevole fino in fondo) può considerarsi racchiuso nella prima fase del Risorgimento, quella che termina miseramente nel 1849; cioè la fase indipendentistica-unitaria più che quella successiva attraversata da spiriti democratici e repubblicani. L'ignoto disegnatore della scritta "viva V.E.R.D.I." (Vittorio Emanuele re d'Italia), aveva dunque colto pienamente lo spirito delle musiche verdiane. Infatti, dopo il 1849 lo stesso Verdi sa che la tensione patriottica del Nabucco, de i Lombardi di Legnano non può più essere alimentata musicalmente senza cadere nella retorica e nella maniera e non avrebbe poi molti agganci con la realtà. La crisi delle speranze della prima guerra d'indipendenza fu per Verdi anche crisi della sua partecipazione culturale alla situazione politica. Da quel momento protagonista delle sue opere non sarà più il popolo, ma la persona, il dramma individuale del Rigoletto (1851), del Trovatore (1853) e della intensa, fragile eroica della Traviata (1853).
Nabucco (1852), Lombardi (1849) e La battaglia di Legnano furono tuttavia sufficienti ad infiammare, in anni di attesa e di forte tensione ideologica, l'animo di milioni di italiani. E, come aveva auspicato Mazzini, proprio ai cori spettò il ruolo di essere il simbolo di una Italia che vuole uscire dalla servitù. Così, il Risorgimento verdiano esplodeva nei versi e nelle note dolenti e dolcissime di "va pensiero su l'ali dorate", nell'appassionato "oh Signor che dal tetto natio" , e nello squillante "viva l'Italia!" Un sacro patto del Lonbardi alla prima crociata, opera questa che fu data a Roma, al teatro Argentina, proprio tra i bagliori della repubblica romana di Mazzini, di Garibaldi, di Pisacane.
La magica fusione di musica e di accenti patriotici che Verdi e i suoi librettisti riuscirono a creare resta un esempio unico nella storia del melodramma europeo dell' Ottocento, Verdi non salì sulle barricate come Wagner né come il musicista tedesco scrisse di socialismo, ma per la "rivoluzione" egli riuscì a fare quel che Wagner non tentò nemmeno. Anche per questo l'amore tra il Verdi robusto e popolare e le qualità più autentiche del popolo italiano  costituisce un dato indistruttibile della nostra storia. Anche nelle opere successive al 1849 la moltitudine degli appassionati verdiani cercò i segni di quella breve stagione rivoluzionaria e patriottica. Non era un inutile cercare poiché anche per Verdi la passione degli anni '40 coincise con la sua maturazione come musicista. Basta pensare ai Vespri siciliani o al Don Carlos per avvertire che il sentimento della Storia fu sempre presente in Verdi come fonte di ispirazione poetica ma anche di realismo politico.

di Lucio Villari in Il romanzo della Musica. L'Opera della Musica. Rossini, Verdi, Wagner, supplemento a "la Repubblica", Arnoldo Mondadori, 1987, p.22 






                                     



                                                       

Trovatori e Trovieri.




Da: Giulio Cattin, Il Medioevo I, Storia della Musica, E.D.T, Torino 1979,pp201-202


 Anonime vidas di due trovatori.

Le vidas provenzali sono esili medaglioni biografici dei trovatori redatti nei secoli XIII - XIV e inclusi in vari canzonieri. La loro veridicità si riduce a qualche dato credibile, se non proprio autentico, e alla libera ricucitura di spunti offerti dalle liriche dei poeti. Si tratta dunque di novelle aneddotiche costruite fra storia e fantasia, assai vicine al genere agiografico. Ai nostri fini, più che la conoscenza per esteso di singole biografie, gioverebbe estrarre le valutazioni sulle conoscenze musicali dei poeti, i quali non sempre erano insieme versificatori, compositori e cantanti-esecutori. Se per Marcabruno abbiamo esplicita affermazione ch'era poeta e musico ("Fetz Marcabru los motz e lo so"), e se Raimbaut d'Aurenga accenna anche all'esecuzione ("Una chansoneta fera, /voluntiers l'aver'a dir"; dove faire=trobar vers ee dir=chantar so), per altri autori le vidas avanzano limitazioni precise, che sono state in parte raccolte da Aurelio Roncaglia:"Pons de Capdoill "sabia ben trovar e violar e cantar"; Richart de Berbezill "ben cantava e disia sons e trobava avinentemen motz e sons"; Gausbert de Poicibot "saup ben letras e ben cantar e ben trobar". Invece, Aimeric de Peguilhan "apres canzos e sirventes, mas molt mal cantava"; Gaucelm Faidit "fetz molt bos sos e bos motz", ma"cantava peiz d'ome del mon" _(tutt'al contrario di Peire Vidal, che "cantava meils d'ome del mon"); Elias Cairel "mal cantava e mal trovava e mal violava e peichs parlava", ma "bem escrivia motz e sons"(L'Ars Nova italiana del Trecento, IV, Comune de Certaldo 1978, p. 368). Non sarà tuttavia inutile, a scopo esemplificativo, la lettura di questo perfetto romanzo in miniatura.







Vita di Jaufre Rudel.


Jaufre Rudel di Blaia fu uomo molto nobile e principe di Blaia. E s'innamorò della contessa di Tripoli senza vederla, ma solo per il bene che di lei udì raccontare dai pellegrini provenienti da Antiochia; e fece su di lei parecchie canzoni con buone melodie ma povere parole. E volendo vederla, si fece crociato e si mise in mare. E in nave lo colse una malattia molto grave, sicché coloro che erano con lui credettero che morisse sulla nave, ma tanto fecero che lo condussero in albergo a Tripoli quasi come morto. E lo fecero sapere alla contessa ed ella andò da lui, al suo letto, e lo prese tra le sue braccia. Ed egli conobbe ch'era la contessa e ricuperò d'un tratto la vista, l'udito e la parola; e lodò Dio e lo ringraziò perché gli aveva conservato la vita sino a poterla vedere; e così morì tra le braccia della sua donna, Ed ella lo fece seppellire onoratamente nella sede dei Templari; e poi, quel giorno stesso, si fece monaca per il dolore ch'ebbe di lui e della sua morte.